
È rimasta solo la porta, avvolta da radici che né distruggono né dimenticano, un silenzioso testimone di resilienza e tempo.
Angkor, la città divina
Angkor non è solo un luogo, è la Cambogia che ha scelto di ricordare. Un luogo in cui le sue torri si alzano nel silenzio, della memoria tra passi di danza e preghiere sussurrate, tra le atrocità del passato nella nebbia della storia, ma raccontano ancora oggi, con leggerezza, ogni passo danzato sulle pietre, ogni preghiera fatta. Un sogno scolpito nella pietra, dove l'umano cerca l'eterno.
Fondata come capitale dell’Impero Khmer tra il IX e il XV secolo, Angkor fu il cuore pulsante di una civiltà che unì architettura, cosmologia e potere politico in una visione sacra del mondo. I suoi templi non erano semplici edifici, ma rappresentazioni terrene del Monte Meru, l’asse dell’universo secondo la cosmologia induista e buddhista.
Angkor Wat, il più celebre tra essi, fu costruito inizialmente come tempio induista dedicato a Vishnu. Con il tempo, divenne anche luogo di culto buddhista, rivelando così la fluidità spirituale dell’area e la sua capacità di accogliere nuove fedi senza cancellare le precedenti.
Ogni bassorilievo, ogni statua, ogni corridoio è una narrazione scolpita. La danza apsara, i racconti del Ramayana, le figure divine: tutto contribuisce a raccontare un universo in cui il regno umano e quello divino si riflettono a vicenda.
Angkor non è solo una testimonianza archeologica, ma una presenza viva. Le sue torri si alzano nel silenzio, tra i passi di danza e preghiere sussurrate. Nonostante le atrocità e la nebbia della storia, Angkor racconta ancora oggi, con leggerezza, ogni passo danzato sulle pietre. I monaci che percorrono i suoi sentieri, le offerte lasciate nei templi, i canti che si elevano tra le rovine, tutto parla di un legame mai interrotto tra passato e presente.
Oggi, Angkor è patrimonio dell’umanità e simbolo di identità per il popolo cambogiano. Un luogo dove il tempo si è fermato, o forse, dove ha imparato a scorrere in modo diverso.
Salvo diversa indicazione, tutte le fotografie in questa pagina dispongono di property release e model release.
Ta Prohm
Ta Prohm è uno di quei luoghi che sembra sospeso tra sogno e rovina, tra natura e memoria. Ti ci perdi dentro e non capisci più se stai guardando un tempio o la giungla.
Si trova nel complesso di Angkor, vicino a Siem Reap, ed è uno dei templi più celebri dell’intero sito, anche perché è stato lasciato in gran parte allo stato selvaggio, con gli alberi che letteralmente lo abbracciano.
I giganteschi alberi di Tetrameles nudiflora crescono sopra, dentro e intorno alle strutture, divelgono pietre, colonne e gli stipiti del tempio e lo hanno reso iconico. È uno di quei luoghi in cui non capisci più se stai camminando dentro un sogno o tra le rovine della memoria.
Costruito dal re Jayavarman VII e dedicato a sua madre, come tempio buddhista Mahayana, Ta Prohm non era solo un tempio, era una vera e propria città-monastero.
Il suo nome originario era Rajavihara, che significa monastero reale, e secondo le iscrizioni, vi vivevano oltre 12.000 persone, tra cui 600 danzatrici. Era un luogo vivo, pieno di preghiere, offerte, suoni di tamburi e profumi d’incenso.
Era parte di un più ampio progetto del re, che trasformò l’impero Khmer in uno stato profondamente legato al Buddhismo, prima che questo venisse progressivamente sostituito dal ritorno dell’Induismo nei secoli successivi.
Quello che rende unico Ta Prohm è che è stato scelto per essere lasciato quasi com’era stato trovato, avvolto dalla giungla. Parla del tempo, della fragilità dell’impero umano e della forza della natura.
È un luogo che ti mette a confronto con l’impermanenza, con la memoria che resiste nonostante tutto. Una sorta di memento mori, silenzioso ma solenne.
Si trova nel complesso di Angkor, vicino a Siem Reap, ed è uno dei templi più celebri dell’intero sito, anche perché è stato lasciato in gran parte allo stato selvaggio, con gli alberi che letteralmente lo abbracciano.
I giganteschi alberi di Tetrameles nudiflora crescono sopra, dentro e intorno alle strutture, divelgono pietre, colonne e gli stipiti del tempio e lo hanno reso iconico. È uno di quei luoghi in cui non capisci più se stai camminando dentro un sogno o tra le rovine della memoria.
Costruito dal re Jayavarman VII e dedicato a sua madre, come tempio buddhista Mahayana, Ta Prohm non era solo un tempio, era una vera e propria città-monastero.
Il suo nome originario era Rajavihara, che significa monastero reale, e secondo le iscrizioni, vi vivevano oltre 12.000 persone, tra cui 600 danzatrici. Era un luogo vivo, pieno di preghiere, offerte, suoni di tamburi e profumi d’incenso.
Era parte di un più ampio progetto del re, che trasformò l’impero Khmer in uno stato profondamente legato al Buddhismo, prima che questo venisse progressivamente sostituito dal ritorno dell’Induismo nei secoli successivi.
Quello che rende unico Ta Prohm è che è stato scelto per essere lasciato quasi com’era stato trovato, avvolto dalla giungla. Parla del tempo, della fragilità dell’impero umano e della forza della natura.
È un luogo che ti mette a confronto con l’impermanenza, con la memoria che resiste nonostante tutto. Una sorta di memento mori, silenzioso ma solenne.

Una radice colossale si riversa sui tetti del tempio e su una colonna scolpita con apsara, sussurrando la silenziosa riconquista della natura e le storie sacre incise nella pietra e nel cielo.

Un passaggio coperto visto dal giardino spoglio, una visione di quiete, simmetria e respiro senza tempo.

Un lungo corridoio visto dall’interno, forse l’eco di passi dimenticati ancora riecheggia nella pietra.

Un’ inquadratura silenziosa, e il mondo oltre, il Tetrameles Nudiflora immerso nella luce.

Seicento Apsara un tempo abitavano qui, il loro spirito ancora scolpito in ogni pietra, che osserva silenzioso mentre attraversi il loro regno sacro.

Radici che sollevano con forza i gradini di pietra antichi, la natura che riconquista il suo spazio nel corso del tempo.
Ta Prohm e la continuità spirituale di Angkor
Ta Prohm, con la sua fusione naturale di pietra e vegetazione, incarna l’essenza di una spiritualità in costante trasformazione, che attraversa i cambiamenti del tempo. Un luogo in cui il tempo stesso, come gli alberi e le pietre che smuove, sembra sospeso, ma non intatto.
Questi cambiamenti hanno toccato l’intera città antica di Angkor, attraverso fedi che mutano, guerre e abbandono.
Questa evoluzione è visibile non solo nelle strutture dei templi, ma anche negli altari theravada che ancora attendono i fedeli, e nelle tracce di una spiritualità che si adatta al cambiamento.
Camminando lungo i sentieri che collegano Ta Prohm agli altri templi, si percepisce come il passaggio attraverso epoche e religioni diverse si rifletta in una continuità spirituale che attraversa i luoghi di culto e i bassorilievi che narrano miti antichi. Questa continuità è viva anche nella presenza dei monaci e dei devoti che ancora oggi percorrono questi luoghi.
È un dialogo senza fine tra passato e presente, tra l’effimero e l’eterno, un invito a sentire la sacralità che pulsa ancora sotto le radici e le pietre di questi templi.
Angkor, dunque, non è solo un luogo della memoria. È un luogo vivo, che continua a raccontare la sua storia attraverso le rovine e le tracce di una spiritualità millenaria, ancora capace di incantare e ispirare oggi. Tra queste pietre scolpite e radici intrecciate, ogni immagine cattura un frammento di quel respiro antico, un’eco di una spiritualità che continua a vivere, pronta a rivelarsi a chi si ferma ad ascoltare.
Questi cambiamenti hanno toccato l’intera città antica di Angkor, attraverso fedi che mutano, guerre e abbandono.
Questa evoluzione è visibile non solo nelle strutture dei templi, ma anche negli altari theravada che ancora attendono i fedeli, e nelle tracce di una spiritualità che si adatta al cambiamento.
Camminando lungo i sentieri che collegano Ta Prohm agli altri templi, si percepisce come il passaggio attraverso epoche e religioni diverse si rifletta in una continuità spirituale che attraversa i luoghi di culto e i bassorilievi che narrano miti antichi. Questa continuità è viva anche nella presenza dei monaci e dei devoti che ancora oggi percorrono questi luoghi.
È un dialogo senza fine tra passato e presente, tra l’effimero e l’eterno, un invito a sentire la sacralità che pulsa ancora sotto le radici e le pietre di questi templi.
Angkor, dunque, non è solo un luogo della memoria. È un luogo vivo, che continua a raccontare la sua storia attraverso le rovine e le tracce di una spiritualità millenaria, ancora capace di incantare e ispirare oggi. Tra queste pietre scolpite e radici intrecciate, ogni immagine cattura un frammento di quel respiro antico, un’eco di una spiritualità che continua a vivere, pronta a rivelarsi a chi si ferma ad ascoltare.

Cinque porte in fila, tutte illuminate dalla luce, l’ultima si apre sull’oscurità.

Una finestra di pietra intagliata incorniciata da morbide bougainvillea rosa, che sussurra storie di bellezza senza tempo e silenzioso desiderio.

Porte che svaniscono nell’oscurità, conducendo oltre, verso una luce senza fine.

Un ampio spazio dove giacciono sparse pietre antiche, mentre tranquille incisioni di figure femminili divine con eleganti acconciature osservano silenziosamente dalle pareti.

Dal corridoio in ombra del Bayon, i molteplici volti del re osservano silenziosi. Attraverso la porta, il suo sguardo incontra la luce, una sentinella senza tempo che attende e protegge il suo popolo. Eppure, chi arriva non è veramente suo.

Foto usata solo per scopi educativi e informativi. Non in vendita. Nessuna autorizzazione ottenuta.
Due giovani monaci sono davanti a una colonna decorata con delicati intagli di apsara danzanti, dove l’innocenza incontra una devozione senza tempo.

Uno scorcio di delicate bougainvillea che incorniciano antiche finestre di pietra, dove luce e ombra si incontrano in un’armonia silenziosa.

Una finestra di pietra senza sbarre, ripresa di lato, che riecheggia un’altra cornice simile nelle vicinanze.
Attraverso questa finestra si apre uno scorcio nel cuore senza tempo di Angkor Wat.

